Non voglio risposte!

Da qualche post sto parlando di creatività e dell’arte della domanda. Entrambe attitudini o competenze del docente a mio avviso non accessorie nella formulazione di una qualsiasi didattica disciplinare e nella progettazione delle attività da svolgere in classe.

Ieri, prendendo spunto dalla newsletter di Annalisa Monfreda – alla quale ti consiglio caldamente di iscriverti! – ho iniziato a riflettere su come si possa progettare una didattica costruita sulle buone domande (questo link, però, te lo lascio! Mi sembra un libro promettente…)

Linda Zhang si è laureata ad Harvard e attualmente svolge un’ampia attività di consulenza, nell’ambito della gestione del lavoro e della carriera. Sono io la prima ad impugnare il martello con forza per distruggere dalle fondamenta l’idea di scuola-azienda, tuttavia possiamo allargare un po’ lo sguardo e renderci conto che oggi, nell’anno 2023, molto si sta muovendo anche nella teoria aziendale verso una declinazione più umana, person-centered, del lavoro. 

Nella sua attività di consulenza, Zhang guida ogni giorno i suoi clienti (che sono poi grandi aziende) a concepire la domanda come strumento in grado di

UNLOCK BIG IDEAS – DEVELOP OTHERS – SCALE YOURSELF

A me sembra che queste tre azioni dovrebbero essere il fondamento di qualsiasi attività abbiamo deciso di intraprendere, e forse a maggior ragione se essa è l’insegnamento.

Partire (ma anche procedere, continuare e finire…) con una domanda – una buona domanda – invece che con una risposta consente appunto di condurre l’altro, nel nostro caso il singolo studente, ad esplorare il potenziale razionale ed emotivo che possiede. E non solo. Io non dimentico mai che, ogni volta che lavoro con un altro, in realtà sto anche lavorando su me stessa, sto evolvendo, sto migliorando. Come professionista e come essere umano.

“Non voglio la risposta! Voglio che tu mi dica che cosa significa per te questa domanda” – potreste sentirmela pronunciare molto spesso, questa frase, appoggiando l’orecchio alla porta dell’aula. Quello che osservo io è che, perseguendo una didattica orientata alla domanda, diventa estremamente facile riconoscere i misconcetti e i bias cognitivi; le tautologie emergono come bulbi sul finire dell’inverno… In sostanza educhiamo a riconoscere il potere di una risposta ponderata, ad argomentare.

“Ma prof… e se nella parete della ISS si aprisse uno squarcio?” (storia vera, estrapolata dall’ultima lezione di scienze)

La domanda, la curiosità, fa parte dell’essere umano; educarla e portarla a diventare ipotesi e poi giudizio credo sia il nostro ruolo. Tutto ciò ruota anche intorno ad un tema che amo molto, quello dell’orientamento, poiché una buona educazione alla domanda permette allo studente di muoversi dalla curiosità all’interesse, compiendo i passi necessari affinché scopra la radice della propria motivazione. Oltre a questo aspetto – centrato su chi sta apprendendo – ve n’è anche un altro, da non dimenticare, che ha il suo fulcro in noi e nelle discipline che portiamo in classe. Condurre una ventina di studenti lungo un percorso che (auspicabilmente!) porterà alla comprensione certa di un determinato oggetto di realtà avviene in un solo modo: rimettendoli sulle tracce del percorso di pensiero grazie al quale, in quel momento, noi siamo lì di fronte a loro, a spiegare e fare esempi. 

Altro esempio (sempre una storia vera), in un’altra classe. Diverso è parlare di genetica affrontando le leggi di Mendel e la struttura del DNA (♙risposte♙, in un certo senso, in base a quanto scrivevo prima) e invece farlo ricordando quali furono le prime ♕domande♕ dell’Uomo delle quali abbiamo traccia, in tale ambito. Quali sono i fenomeni che sono salvati (filosoficamente parlando) da una teoria assurda, inutile, dimenticabile, come quella dell’homunculus? Vi fu una domanda e vi fu una risposta – assurda, inutile, dimenticabile – attingendo alla quale, al minimo brandello di ragionevolezza che possedeva, altri furono in grado di costruire ipotesi più ampie e verosimili.

“Perché?” “E se…?” sono i mattoni della scoperta e della meraviglia. Il “Come?” nasce di conseguenza, e quello è la risposta. Zhang osserva che molti progetti aziendali vanno incontro a fallimento perché si salta direttamente nel “Come?” senza essersi posti un “Perché?” e senza aver valutato le possibilità degli “E se…?”. Più il progetto è complesso e ambizioso – afferma Zhang – e più si dovrebbe dedicare del tempo (molto tempo) alle esplorazioni iniziali. Semplicemente perché il tempo speso in queste attività permetterà di guadagnarne dieci volte di più a valle, al momento della realizzazione del prodotto o del servizio. 

Quale progetto più complesso ed ambizioso esiste, dunque, di quello di aiutare un giovane uomo o una giovane donna a crescere e capire? Nella didattica, il rischio, ad esempio, è di lasciare in veste assiomatica, senza metterli in discussione, gli assunti-chiave. Invece dovremmo divertirci a smembrare, distruggere e ricostruire, insieme ai nostri studenti. E possiamo farlo anche seduti alla cattedra, anche durante la più banale delle famigerate ‘lezioni frontali’. Perché il metodo non sta nello strumento, ma nello sguardo di chi lo usa.

Le domande più potenti, inoltre, sono a risposta aperta. Non ammettono né un semplice ‘sì’ né un ‘no’. Esse sfidano a ri-esaminare uno status quo iniziale, quell’insieme di misconcetti che i nostri studenti si portano addosso senza nemmeno saperlo. Non ‘per colpa’ di qualcuno (della scuola elementare, prima, poi della scuola media, poi del prof che non interrogava etc), magari per esperienze compiute o scartate, per un vissuto che è individuale, per definizione, di ognuno. Ma questo status quo, noi docenti dobbiamo averlo presente e dobbiamo appunto sfidarlo. E intanto, insegneremo le strategie efficaci, affinché coloro che ci incontrano nelle aule di scuola possano poi applicarle quando saranno da soli e qualunque ambito della vita si troveranno ad esplorare.

Ma, al di là della definizione stretta che siamo abituati a maneggiare nella nostra professione, quale potrebbe essere un buon esempio di domanda aperta? Basta pensare al movimento – e ricordiamo che la motivazione è la radice di un movimento – che viene generato quando chiediamo “qual è il passaggio cruciale che permette di giungere a Y?”. Persino la domanda apparentemente simile – “dovremmo agire in modo X per giungere a Y?” appare, a questo punto, terribilmente chiusa. E perciò sterile. È relativamente facile distinguere i due gruppi di domande: quelle chiuse sono introdotte da “devo? dovrei? posso? è? ottengo? etc”; quelle aperte mostrano i famosi “che cosa? quando? dove? come?”. Tutte informazioni che sappiamo da sempre, è vero, ma se ci impegnassimo a renderle carne delle nostre lezioni quotidiane..? 

Senza considerare che un ambiente il cui stile sia quello del problema, cioè della domanda condivisa è incredibilmente più interessante! Procedere tentando di costruire ipotesi – all’interno di un luogo in cui ognuno adotta questa modalità, per quanto con ruoli diversi – ha un gusto imparagonabile rispetto all’esecuzione (pur perfetta) di una sequenza di ordini.

fonte

Come a dire: entriamo a scuola con delle domande e ne usciamo con delle frasi fatte…

Non vorremmo mai che fosse così, però. O no?

Foto di Artem Maltsev su Unsplash

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