L’Uomo: animale della narrazione. Homo narrans

E se anche non fosse per scelta oppure per desiderio, lo sarebbe per necessità.

Eterna lotta contro il disordine è la nostra esistenza. Un’entropia crescente che avvolge le nostre vite e le confonde, che sovrappone gli eventi e rende affannoso individuare quale sia ‘causa’ e quale ‘effetto’, che ci lascia in balìa di un non-senso e fa afferrare – in modo beffardo – soltanto la superficie viscida delle cose.

Infondere ordine nel disordine è il proprio di una storia ben narrata. Quasi un baratto, il fatto che noi riusciamo a “mettere dentro” ordine nel disordine delle cose solo quando riusciamo ad “estrarne” senso. Dare senso alla realtà, mettere un punto fermo. Capire: acquisire conoscenza (forse anche sapienza, se il nostro giudizio critico poi ci metterà anche del suo) dalla messe dei dati, da quell’informazione che altrimenti rischierebbe di travolgerci.

Siamo stati tutti seduti attorno a un fuoco ad ascoltare qualcuno che ci narrava che cosa fosse accaduto, come era accaduto, magari anche perché era accaduto in quel modo. Abbiamo tutti subito il fascino, la nostalgia e lo stupore, di conoscere qualcosa che – fino ad un istante prima – ci stava completamente sfuggendo. Siamo stati tutti riconoscenti nei confronti di quel cantore della realtà, che gratuitamente ci stava facendo dono di un senso.

Accade sempre, continua ad accadere anche quando non siamo più bambini in un letto, con gli occhi fissi in colui o colei che sta operando quel rito antico.

E’ la duplice meraviglia che origina dal conoscere ciò che è ma anche dall’immaginare ciò che potrebbe essere.

Oziare, appassionarsi, studiare.

Vi è un luogo – che si fa anche tempo, più o meno definito, nella vita di ognuno – del conoscere. E questo luogo è la scuola. Idealisticamente intesa come la scholè dei Greci (e il suo derivato, l’otium dei Romani): lo spazio-tempo destinato alle cose amate e desiderate. E quindi, sopra tutte, lo studio.

A scuola si racconta – da un lato della cattedra; si studia, si impara, dall’altro – ciò che esiste, ciò che ora è provato e che una volta fu soltanto immaginato (si pensi a tutte le grandi teorie della Scienza), ma anche ciò che avrebbe potuto esistere e semplicemente non è stato. 

Si racconta perché non vi è altro modo di comunicare – cioè di far dono di sé e del mondo, attraverso di sé – se non narrando una storia; si studia perché non vi è altro modo di essere appagati se non attraverso la conoscenza.

Persuadere, avvincere, conquistare.

Se è vero che le narrazioni (im)mettono (un briciolo di) ordine nel caos, esse riescono a farlo poiché intessono una rete di collegamenti – assolutamente arbitrarii – tra le informazioni che costituiscono il materiale grezzo della realtà. Ogni narrazione classifica, organizza, toglie alla presa dell’equivalenza quelli che sono i dati. [Quando questa, che è la caratteristica fondante del racconto, viene applicata al modo in cui creiamo nessi tra gli eventi della nostra vita, l’esito può essere tragico oppure mirabile: vivremo allora da delusi, misantropi e annientati, oppure ci affacceremo ad ogni nuovo giorno con ardore eroico… ma questa è un’altra storia, è la storia di come ci narriamo a noi stessi]

E allora anche il commercio, le aziende, ogni realtà che si voglia proporre come brand, pare avere, negli ultimi anni, scoperto lo strumento dato dalle narrazioni. In modo più esplicito, più specificamente legato alla parola-in-sé, di quanto non sia sempre stato raggiunto attraverso la forma pubblicitaria. Insomma: parole e basta.  Soltanto parole. Ma scelte con cura, selezionate, limate, portate a risplendere del loro significato nascosto oppure ad evocare in modo subdolo.

Immaginare, vivere.

“La letteratura è la prova che la vita non è abbastanza” scrive Pessoa. Ma anche, nelle parole di George R.R. Martin, “Un lettore vive migliaia di vite, prima di morire. L’uomo che non ha mai letto, ne vive solo una”. Scrittura e lettura: il primo e l’ultimo passo dello stesso processo.  Il romanzo che inizia nella testa dello scrittore, per terminare in quella del lettore. Per terminare in modo diverso, in quella di ognuno dei suoi innumerevoli lettori. Non a caso, si dice che entrambi i ruoli si esplicano al meglio ‘vicino ad una finestra’, attraverso la quale la mente possa temporaneamente mettersi in pausa. 

E vagare. 

Ma attenzione… “Non tutti coloro che vagano si perdono”, nella voce di J.R.R. Tolkien, e di quell’ammiccante accenno al paradosso apparente del ‘trovarsi, perdendosi’ [… e che cosa potremmo però dire di quando ‘ci si perde, trovandosi’, con Edipo a fare da aprifila..?].